Nessuno stupore se il Brent in inverno sfonda quota 100

Le riflessioni controcorrente di Salvatore Carollo - Energy and Oil & Gas Senior Consultant

In questa analisi, Salvatore Carollo spiega numeri alla mano come mai non ci devono stupire le file al distributore di benzina, così come non ci dovremo stupire il prossimo inverno, quando il prezzo del petrolio, spinto dalla crisi energetica e dalle temperature rigide, schizzerà fino a quota 100 e oltre. Sono gli effetti di quel problema tante volte messo a fuoco dall’autore: una transizione energetica improvvisata da ciechi che guidano altri ciechi.

In Nigeria, o in tanti altri paesi africani o del Medio Oriente, anche importanti paesi produttori ed esportatori di petrolio, vedere stazioni di servizio chiuse con code interminabili di autovetture in fila in attesa di fare il pieno è uno spettacolo quasi quotidiano. Non desta sorpresa. Vedere la stessa cosa a Londra o negli Stati Uniti è diverso e suscita emozioni, sorpresa, incredulità, incomprensione.

Da decenni ci siamo abituati a fare il pieno ovunque e quando ci pare. Ed in poco tempo. Se vediamo due o tre auto in fila prima di noi, andiamo alla stazione di rifornimento successiva. Nei paesi industrializzati dell’Occidente, aspettare per fare rifornimento non rientra nei modelli mentali che regolano i nostri comportamenti ormai dagli anni ’60.

Eppure, è successo a Londra nelle settimane passate e negli Stati Uniti, prima nell’anno 2000, poi in occasione di diversi uragani e durante la fermata della pipeline Colonial.

Incidenti marginali o segno premonitore di una crisi strutturale cui non si è ritenuto necessario o utile porre rimedio?

La domanda potrà suonare assolutamente irrilevante per la gran parte dei nostri ambientalisti, che ritengono che ormai la transizione energetica è già fra di noi e che alle fonti fossili rimangono i minuti contati. Perché preoccuparsi di un problema che non esiste più? Perché investire risorse ed occuparsi del petrolio e dei prodotti petroliferi se fra qualche anno non ci serviranno più?

Quanti leader politici hanno annunciato la chiusura al traffico per i veicoli a combustione interna già nei prossimi anni (2030 al più tardi)? A sentir loro, i veicoli diesel dovrebbero già essere scomparsi.

Boris Johnson è stato fra i primi a prendere posizione e lanciare annunci in tal senso e magari ci ha pure creduto, visto che nei negoziati sulla Brexit non si è per nulla preoccupato di garantire al suo paese la disponibilità di quegli autisti europei che operavano nel settore dei trasporti e della distribuzione dei prodotti petroliferi. Oggi è costretto a correre ai ripari chiamando le forze armate a trasportare la benzina ed il gasolio dai depositi alle pompe di benzina. Una emergenza nazionale dovuta alla mancanza di comprensione da parte della classe dirigente dei meccanismi di funzionamento dei sistemi energetici e della logistica di base. Eppure, non era difficile capire e trovare in tempo le soluzioni.

Si tratta di segnali che però cerchiamo di esorcizzare. Mi preoccupano i commenti di studiosi di primo piano del mondo energetico nazionale che, con un atteggiamento fideistico, affermano che non esiste alcun problema perché le compagnie petrolifere, alla fine, troveranno il modo di toglierci fuori dai guai.

Purtroppo, credo che gli atteggiamenti fideistici da parte degli “esperti” siano molto pericolosi, perché forniscono alibi demagogici ai politici populisti.

Guardiamo ad alcuni numeri che ci stanno davanti.

Il prezzo del petrolio è tornato sopra 80 $/barile proprio a settembre, normalmente il mese che fa registrare il livello stagionale di più bassi consumi (insieme al mese di aprile) e, come ci si può aspettare con l’arrivo dell’inverno, potrà facilmente raggiungere il traguardo dei 100 dollari. È passato un poco più di un anno dal crollo del WTI a -37 $/b ma sembra sia passato un secolo. I commenti che furono scritti da troppi analisti energetici un anno fa oggi sembrano dimenticati e sepolti (ricordate? I paesi produttori non solo regalavano il petrolio greggio, ma ti pagavano pure 37 $/b per fartelo portare via). Penso che gli stessi autori oggi se ne vergognino.

Vediamo cosa sta succedendo sul fronte della domanda di petrolio dall’inizio del 2021.

A gennaio la domanda mondiale era 90,5 milioni di barili/giorno, a marzo era 93,7, a giugno 95,4. Un aumento di quasi 1 milione di barili/giorno ogni mese. I dati dei mesi successivi a giugno non sono ancora disponibili, ma le stime provvisorie sembrano confermare la continuazione del trend di crescita.

Questa tendenza è confermata in modo puntuale anche per i paesi Ocse che passano da 41,3 milioni di barili giorno di gennaio a 45,3 di giugno.

La crescita della domanda petrolifera non riguarda quindi le solite Cina e India, ma anche l’insieme dei paesi industrializzati. Altro che tramonto del petrolio e delle fonti fossili.

Per far fronte a questa domanda l’industria di raffinazione ha dovuto utilizzare al massimo la sua capacità operativa, riuscendo a mettere sul mercato quasi 81 milioni di barili/giorno di prodotti finiti, lasciando però scoperto un deficit di oltre 5 milioni di barili/giorno. Molti paesi in varie parti del mondo non hanno potuto ricevere nel momento voluto le quantità richieste. Le file davanti alle stazioni di servizio sono l’evidenza fisica di questo deficit.

Questo sbilanciamento fra domanda ed offerta di prodotti finiti ha creato la tensione sui prezzi a livello di mercato internazionale. Il prezzo della benzina e del gasolio è salito a livelli che non vedevamo da anni.

Il prezzo del jet fuel, nonostante non ci sia ancora stata una piena ripresa dell’attività di trasporto aereo, è salito nelle ultime settimane del 64% e rischia di toccare punte ancora più alte nei prossimi mesi, con un forte effetto di trascinamento verso il prezzo del greggio.

Il mercato americano, sicuramente il più trasparente e con un’ampia disponibilità di dati statistici di brevissimo periodo, mostra come il rifornimento di benzine sul mercato interno è stato garantito in mezzo a grandi criticità.

A fronte di una domanda di 20 milioni di barili/giorno, gli Usa dispongono di una capacità di raffinazione appena superiore a 15 milioni di barili/giorno. C’è quindi una mancanza strutturale di circa 6 milioni di barili/giorno di prodotti finiti da coprire con importazioni dall’estero. Inoltre, la struttura complessiva del sistema di raffinazione è obsoleta e tecnologicamente arretrata e non in grado di produrre i 10 milioni di barili/giorno di benzine di alta qualità richieste dal mercato interno.

I raffinatori pertanto sono costretti a far ricorso all’importazione di semilavorati di alta qualità per oltre 1,1 milioni di barili/giorni da miscelare con le benzine da loro prodotte ed hanno dovuto esportare verso il Sud America oltre 1.0 milione di barili/giorno di benzine di bassa qualità che comunque vengono prodotte sui loro impianti.

Operazioni che hanno messo a dura prova la flessibilità operativa del loro già precario sistema logistico.

La produzione di jet fuel è tornata ormai quasi ai livelli pre-Covid con un aumento da 18 a 46 mila barili/giorno, assolutamente insufficienti rispetto alla domanda, che è stata coperta con l’importazione di oltre 200 mila barili/giorno. Una dipendenza dall’estero molto critica in un settore così strategico.

Il sistema petrolifero americano vive alla giornata e registra un costante allontanamento delle compagnie petrolifere storiche dal downstream e dalla distribuzione. Soprattutto, registra un tracollo degli investimenti da parte delle compagnie integrate nel mercato interno. Le proteste dei movimenti ambientalisti hanno inoltre creato un clima di rifiuto delle banche a finanziare gli investimenti petroliferi.

In Europa, il mercato è meno trasparente ed i dati sono disponibili con un ritardo di vari mesi. I crescenti squilibri di mercato fra domanda ed offerta di prodotti finiti vengono bilanciati con le importazioni sporadiche dai paesi dell’Est o da quelle di dubbia origine provenienti dal Nord Africa o dal Mediterraneo Orientale. Su questi flussi galleggia quel mercato nero che danneggia gli operatori più strutturati.

In Italia, a parte l’eccezione dell’Eni, non ci sono più compagnie petrolifere nel sistema di distribuzione dei prodotti petroliferi al dettaglio.

Mentre il mercato internazionale va incontro ad una crisi strutturale per garantire il rifornimento di prodotti petroliferi, l’Italia sembra procedere senza sosta allo smantellamento di un sistema industriale che per decenni ha garantito sicurezza strategica degli approvvigionamenti e prestigio nei rapporti internazionali con i paesi produttori.

A volte sembra che ci sia un accanimento ideologico distruttivo privo di razionalità e buon senso. Faccio l’esempio delle auto diesel.

La tecnologia dei motori diesel per il trasporto stradale per camion e per le auto è tipicamente europea. Nel corso di un secolo si è sviluppata moltissimo fino a disporre di motori il cui consumo è superiore a quelli a benzina e le cui emissioni sono più basse. I motori diesel di ultima generazione sono decisamente meno inquinanti sia degli altri motori a combustione interna sia di quelli elettrici, se si tiene conto di tutto il ciclo produttivo complessivo (centrali elettriche incluse).

Questi motori vengono alimentati con il gasolio, che è il prodotto più disponibile nel processo di raffinazione del petrolio greggio. Mediamente da un barile di petrolio si ottiene fra il 40 e il 50% di gasolio (la benzina è solo il 20% dell’intero barile).

Affermare di voler abolire per legge l’utilizzo delle auto diesel vuol dire bloccare tutto il sistema di raffinazione. Se, infatti, non ci sarà più uno sbocco di mercato per il gasolio, ossia per la metà dei prodotti raffinati, come si farà a garantire la continuità della produzione? Cosa faremo con il gasolio?

Il passaggio dal petrolio ad altri fuel per il trasporto deve essere graduale e complessivo, se no è semplicemente irrealizzabile.

E poi ci si scorda sempre di quel piccolo particolare che si chiama jet fuel, che rappresenta soltanto il 5% del barile. Finché avremo bisogno di questo 5%, bisognerà produrre il rimanente 95% ed utilizzarlo.

Anziché proclamare slogan non attuabili, perché non supportare lo sviluppo delle tecnologie di utilizzo delle fonti fossili per renderle meno inquinanti e riducendo le loro emissioni. Si avrebbero positivi effetti a livello mondiale riducendo le emissioni complessive in modo significativo.

Ovviamente, se la transizione energetica fosse dietro l’angolo, come dicono tanti ambientalisti nostrani, non ci sarebbe da preoccuparsi, ma se per caso l’approdo ad un nuovo assetto di mercato dovesse allontanarsi nel tempo solo al di là di un decennio, allora dovremo essere pronti ad affrontare delle crisi drammatiche per garantire quella copertura dei consumi petroliferi che oggi riteniamo cosa normale e scontata.

Le reazioni che abbiamo appena visto a fronte dell’aumento delle bollette energetiche potrà diventare un gigantesco problema economico e sociale di difficile soluzione e dai costi enormi.

C’è un dato che dovrebbe far riflettere tutti per capire la dimensione della crisi che potremmo trovarci ad affrontare. La pandemia ci aveva fatto illudere circa il rallentamento del trend di crescita della domanda petrolifera nel mondo. Già ora vediamo che siamo tornati ai livelli pre-crisi e che presto li supereremo abbondantemente.

Se guardiamo ai consumi pro-capite di prodotti petroliferi nel mondo vediamo alcuni valori significativi (barili a persona): Usa 20,4; Europa 8,7; Cina 3,5; India 1,2.

Se assumiamo che India e Cina tendano ad arrivare ai livelli di consumo pro-capite europei, lasciando perdere i livelli americani, ci troveremmo di fronte ad un potenziale di crescita di almeno 3 o 4 volte i consumi attuali di una popolazione di circa 3 miliardi di persone.

Possiamo evitarlo? Esiste una soluzione tecnologica alternativa praticabile nei prossimi due decenni per questi 3 miliardi di potenziali utenti?

Se questo processo andrà avanti, con la fermata degli investimenti da parte delle compagnie petrolifere a livello mondiale sia nella ricerca e produzione di idrocarburi sia nella raffinazione del petrolio greggio e, ancora di più con il rifiuto delle grandi banche di finanziare questi investimenti, saremo di fronte ad una drammatica situazione di shortage dell’offerta e di fortissima competizione per accaparrarsi i prodotti finiti disponibili.

È il caso di continuare ad ignorare il problema favorendo il degrado e la fermata degli impianti di raffinazione finora sopravvissuti?

L’immagine delle stazioni di servizio chiuse e le file di auto a Londra e dintorni saranno pure dovute all’imperizia e la fretta con cui è stato condotto il negoziato sulla Brexit, ma è bene fissare quell’immagine nella nostra mente, perché potremmo rivederla nuovamente in Europa e negli Stati Uniti. Sarà interessante, quel giorno, sentire le accuse dei nostri ambientalisti contro le compagnie petrolifere e contro i governi che hanno dato loro ascolto in questi anni.

https://www.staffettaonline.com/articolo.aspx?id=358869